La password per entrare nel romanzo di Antonia Occhilupo è proprio il viaggio. Cos’è infatti la parabola di Giuseppina e Julia, sua madre, di Jolanda, la dolce sorella di latte, e di Justine, “ebrea saffica sopravvissuta”, le protagoniste, e del gineceo che si muove intorno a loro, se non una continua “anabasi”, un susseguirsi di “nόστοι”, di ritorni fra passato e presente, un’osmosi continua, incursioni nella memoria sullo sfondo delle guerre (con tutti gli orrori, i lager) e delle lacerazioni che provoca, lutti difficili da elaborare, ferite che mai si richiudono?
È un’ansia di radici, di appartenenza, di condivisione, di un senso da dare alla propria vita, tra peregrinazioni, emigrazioni epocali e viaggi per recuperare la memoria transgenerazionale fra il Brasile, l’Italia e la Slovenia.
È come se la scrittrice salentina intingesse nel tè le “madeleine” di Proust o, sulle rive del Mediterraneo (“La mia ninna nanna è stata la sinfonia in crescendo delle onde”), bagnasse nell’acqua di mare, a mo’ dei marinai fenici, le frise, per ricordare snodi esistenziali, lo spirar del vento, i moti dell’anima (“Mi ero seduta sulla poltrona della nonna, quasi a sorbire i suoi silenzi e le sue lacrime cristallizzate, mai più versate”).
Giuseppina è personaggio drammatico, da tragedia greca, una Penelope tre millenni dopo (“Prendevo il sole sulla terrazza, sognando di viaggiare per terre e mari lontani”), tesse paziente la tela,
ma, a differenza della moglie di Ulisse, si guarda bene dal disfarla. Non può farlo perché è un personaggio ascrivibile a un neo-umanesimo gravido di orizzonti che anelano a un uomo nuovo e a una
civiltà superiore. Le continue citazioni del mondo classico, greco e latino, stanno lì a significarlo.
Lei studia al Dams, crede nel potere salvifico del logos (la parola), della conoscenza quale presupposto di un mondo nuovo, e poi sceglie di fare teatro sociale tra le periferie del mondo, degli
scartati, degli ultimi.
Nel dipanarsi dell’intreccio narrativo, torna imperioso il richiamo (“Ma c’è sempre un’Itaca dentro di noi, un richiamo irresistibile, seppur procelloso, che ci riporta a riva, verso noi stessi: il mare e la costa, il distacco e l’approdo”) che traghetta Giuseppina verso la sua terra anelata e amata (“Abitare nella pajara mi fa sentire parte integrante e testimone di un patrimonio culturale che mi è stato consegnato dalle generazioni passate per custodirlo e tramandarlo”).
E, anche in questo romanzo, emerge una costante del realismo magico e visionario della Occhilupo: la complicità fra donne, la loro forza dirompente, la potenza escatologica della loro energia. È sottinteso un matriarcato di cui non si vuole prendere atto e di cui l’uomo ha paura: da Lisistrata a Didone, fino alle streghe del Seicento e alle donne del Novecento contadino, in un contesto dove gli stupri e la violenza sulle donne devono essere tenuti nascosti, da non far sapere in giro (“Mi voleva far giurare di non dire mai la verità. ‘Tanto non ti crederanno mai. La tua parola contro la mia. Se vuoi, ti pago l’aborto, però se lo vuoi tenere, tienitelo pure, io non lo riconoscerò mai’. ‘Ti sbagli, tutti sapranno che è figlio tuo, ma sbandiererò ai quattro venti che è nato per amore’”).
È una storia che parla di donne altruiste, imperfette, passionali, donne ribelli e scricchiolanti, donne libere ed emancipate, donne forti e determinate che non accettano i soprusi maschili
perpetrati da millenni.
In un romanzo sospeso fra sociologia e antropologia, in cui in controluce appare la solida architettura socio-economica del Novecento al Sud, prosegue il lavoro sulla lingua recuperando termini
arcaici e ricchi di storia e semantica, in cui i personaggi sono quasi schiacciati dal Fato, gli uomini sono fragili, tormentati, come i personaggi di Dostoevskij.
Sullo sfondo, la bellissima Santa Cesarea Terme (“Sei meravigliosa Santa Cesarea mia, sei mia, perla mitica e mistica), con i riti, le tradizioni e i cambiamenti, che ha subito nell’arco di un
secolo, funge da richiamo irresistibile.
Francesco Greco
Giornalista e critico letterario