Antonia Occhilupo, con questo romanzo dal titolo inequivocabile, Non uccidere il coraggio, è ormai al suo quinto libro. In precedenza aveva dato alle stampe due romanzi, Oggi è il mio domani - triplo salto mortale dal coma alla miastenia al timoma e La casa dall’angolo dipinto, una raccolta di versi, Quisquilie, tra infanzia e radioterapia, e un saggio, Nobeldonne, dedicato alle donne che sono state insignite del Premio Nobel.
Prima di scoprire la Miastenia Gravis, l’Autrice aveva conosciuto il coma, passando perciò per una esperienza che non poteva non lasciare un segno indelebile nella sua esistenza. Se prima aveva osservato la malattia dal punto di vista del medico, ora le toccava guardarla dal punto di vista del “paziente”.
Proprio questa diversa angolazione credo che sia all’origine dello stimolo a scrivere, il bisogno, come dice lei stessa, di “testimoniare e divulgare la propria esperienza di medico diventato paziente” e bisogna dire che lo fa egregiamente con dovizia di particolari nella descrizione delle diverse fasi della malattia e della terapia che ne consegue. Tuttavia il linguaggio usato è tutt’altro che quello medico, arido, scientifico. Anzi, ciò che emerge con maggiore forza e incisività è la descrizione degli stati d’animo che la malattia produce e che l’Autrice riesce ad esprimere con distacco ed empatia, mettendo così in evidenza capacità letterarie che probabilmente nemmeno lei sapeva di avere.
L’attività della scrittura svolge anche in questo caso una funzione terapeutica.
“Scrivere equivale a creare e il processo creativo risulta terapeutico in sé”. Sono parole di Carl Gustav Jung, psichiatra, psicoanalista e antropologo svizzero, padre della “psicologia analitica” o “psicologia del profondo”.
È questa probabilmente la chiave di lettura della produzione letteraria che spinge l’Autrice a scrivere. Un foglio di carta e una penna o la tastiera di un computer diventano ottimi interlocutori cui affidare i nostri sogni e le nostre amarezze. Scrivere diventa una forma di sollievo per l’anima, una vera e propria terapia. Sta in questo la funzione terapeutica della scrittura, una forma di auto-esplorazione in cui emergono, anche in Non uccidere il coraggio, vissuti intrisi di ricordi, di immagini di un passato che sembra migliore di come è stato percepito nel momento in cui è stato vissuto, di dubbi che non avevano avuto risposte. L’aver scandagliato con acume il passato induce Nella a guardare avanti, a rimuovere disillusioni e frustrazioni, ad accettare la realtà per progettare nuove esperienze positive.
Ma, nello specifico, ci sono alcuni elementi che caratterizzano la scrittura dell’Autrice: la ricostruzione dettagliata e nostalgica di un passato impregnato di sentimenti puri e semplici nei rapporti familiari e non, in cui si era felici pur avendo poco o nulla mentre la vita fluiva tra povertà, umiltà e dignità; il linguaggio lineare e scorrevole, anche nella mirabile descrizione di eventi storici passati e recenti, che rende piacevole la lettura; una trama verosimile che produce l’identificazione del lettore in alcuni contesti, con alcuni personaggi del romanzo o in alcune vicende, anche traumatiche, o in relazioni affettive cariche di vicissitudini; infine “il coraggio”. Quel coraggio che dà il titolo al libro che, paradossalmente, risulta essere il “personaggio” principale della storia di Nella. Il coraggio di una bambina la cui mamma era cresciuta in una dimora signorile, facendo la serva, il coraggio di affrontare e superare tante delusioni nei confronti dell’altro sesso in adolescenza, prendendo coscienza del suo essere donna in un mondo dominato dagli uomini, il coraggio di sposare un uomo molto più grande di lei e di accogliere un extracomunitario, già maggiorenne, offrendogli un futuro in Italia, il coraggio di tenere un segreto per evitare un dolore lacerante ad una persona amata, il coraggio di prendere di petto e vincere la malattia per ben due volte nella sua vita così travagliata, il coraggio di tante altre donne, in particolare di “Alba e Anita, due madri, prima abbandonate e poi serve, capaci di scrollarsi di dosso l’infamia, la vergogna, il disprezzo, e di amare incondizionatamente” e di “Abbondanza e Maria Amata, due figlie, concepite da una violenza, l’una, e da una relazione osteggiata, l’altra, capaci di comprensione e di amore”.
Quel coraggio che i latini chiamavano fortitudo, forza, che consente di forgiare il carattere, di affrontare vis-à-vis dolori fisici e morali senza abbattersi, nonostante i rischi e i pericoli d’ogni genere. Insomma, il coraggio di vivere, perché vivere spesso è una sofferenza e per vivere ci vuole coraggio, quello Scegli la vita sempre, quel Coraggio di avere coraggio, che all’Autrice non è mancato e non manca, spingendola a sposare la filosofia dell’Oggi è il mio domani, del Carpe diem, stimolandola a regalarci anche questo romanzo che non può non coinvolgere e commuovere chi lo legge.
E l’Autrice ci svela: “Le emozioni sono sospesi frammenti di vita, sono le poesie dell’anima che reggono l’universo”.
Giancarlo Colella
Giornalista Gazzetta del Mezzogiorno